Omaggio a Roberto Parodi di Riccardo Tugnoli
C’è una lucidità disarmante nel video di Roberto Parodi, Trainspotting 3.0.
Non è solo una riflessione sul tempo che cambia, ma una radiografia della nostra decadenza quotidiana — quella silenziosa, invisibile, che si consuma dentro ciascuno di noi ogni volta che rincorriamo l’ennesima novità digitale, la prossima scarica di dopamina virtuale, l’ultimo rito collettivo dell’inconsistenza.
Parodi ha detto qualcosa che raramente si sente dire oggi: che non c’è più sostanza, che ci siamo persi nel rumore di fondo.
E lo ha fatto con quella semplicità ruvida, autentica, che solo chi ha vissuto davvero le cose può permettersi.
Nessuna posa, nessuna ricerca di consensi. Solo una verità detta a voce alta: stiamo regredendo nella forma più moderna della dipendenza — quella che scambiamo per libertà.
Il virus della novità
Siamo diventati consumatori seriali di sensazioni.
Ogni giorno pretendiamo un “nuovo inizio”: una nuova serie da vedere, un nuovo trend da seguire, un nuovo modo per mostrare che “ci siamo anche noi”.
Non per curiosità — ma per paura di restare indietro.
E mentre inseguivamo la novità, abbiamo smesso di essere nuovi dentro.
Abbiamo smarrito la capacità di restare, di approfondire, di scavare.
Non leggiamo più, non ascoltiamo più: scorriamo.
Non desideriamo più: vogliamo.
E non vogliamo più perché ci serve: vogliamo perché possiamo.
È una forma raffinata di schiavitù, che chiamiamo progresso.
Una schiavitù autogestita, addolcita dagli slogan della libertà individuale e dell’autorealizzazione.
La verità? Siamo tutti in coda per la stessa dose — quella che ci fa sentire vivi per cinque minuti, e vuoti per i successivi cinquanta.
La società degli insoddisfatti
Parodi lo dice chiaramente: non c’è più gusto in niente.
E non perché manchino le opportunità — anzi, ne abbiamo troppe.
È che abbiamo smarrito il senso del limite, e senza limite non c’è desiderio.
Senza desiderio, non c’è gioia.
E senza gioia, non c’è umanità.
Viviamo in una società che confonde la possibilità con la felicità.
E così, più possiamo tutto, meno siamo.
Più condividiamo, meno comunichiamo.
Più mostriamo, meno sentiamo.
Siamo diventati un popolo di insoddisfatti, di cercatori eterni di un altrove che non esiste.
Un popolo che ha sostituito la fede con l’algoritmo, la riflessione con la reazione, l’identità con la connessione.
Siamo connessi a tutto, ma non attaccati a niente.
L’ipocrisia dell’epoca felice
Sorridiamo nelle foto, predichiamo la serenità, scriviamo “gratitudine” sotto i tramonti — ma viviamo anestetizzati.
Abbiamo paura del silenzio, perché nel silenzio risuona ciò che siamo diventati.
E allora riempiamo ogni vuoto di contenuti, come se l’assenza fosse un difetto da correggere.
Non c’è più tempo per annoiarsi, per pensare, per stare.
Eppure è proprio nell’inutilità apparente del tempo che si nasconde la verità di noi.
Parodi ci mette davanti a uno specchio scomodo: non ci mancano le occasioni, ci manca il coraggio di guardarci davvero.
Preferiamo definirci attraverso quello che consumiamo, non attraverso ciò che costruiamo.
Viviamo come se la vita fosse un feed infinito da aggiornare.
Ma la vita vera, quella che fa male e che salva, non si aggiorna: si attraversa.
Un elogio alla consapevolezza
Per questo il video di Parodi è prezioso.
Perché non giudica, ma constata.
Non pretende di salvare, ma ricorda che potremmo ancora salvarci — se solo tornassimo a scegliere la sostanza, a fare silenzio, a distinguere la realtà dall’effimero.
Forse Trainspotting 3.0 non è un grido di disperazione, ma un atto d’amore verso un’umanità che si è solo distratta.
Plan B, nel suo modo libero e spaiato, non può che sottoscrivere questo pensiero:
non serve essere di sinistra, di destra o di centro per capire che la vera rivoluzione oggi è tornare a sentire.
Conclusione: meno “3.0”, più umani
Non c’è nostalgia nelle parole di Parodi e nemmeno nelle mie, solo verità.
E la verità, oggi, è l’unico atto di ribellione rimasto.
Il resto è rumore.
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