Nel silenzio ovattato della democrazia rappresentativa, ci avviciniamo al referendum dell’8 giugno. Non è mia intenzione – e non è nello spirito di PIANO B, blog che rifiuta l’asservimento a ideologie precostituite – suggerire cosa votare. Non voglio neppure dare un’indicazione generica, una di quelle frasi da retro di copertina tipo “l’importante è partecipare”. Ma una riflessione la dobbiamo fare, e senza sconti per nessuno.
Perché siamo arrivati al paradosso che le più alte cariche dello Stato, coloro che dovrebbero incarnare lo spirito costituzionale, si esprimano non per indirizzare il voto, ma per disincentivarlo. Non per spiegare, ma per spegnere. Non per chiarire, ma per oscurare.
Il messaggio – neanche troppo implicito – è: “state a casa, non andate a votare”.
Un invito che stride con la crisi profonda della partecipazione democratica in Italia, un Paese dove l’astensionismo ha superato da tempo la soglia dell’emergenza: oltre il 40% degli italiani non si reca più alle urne, e i governi reggono in piedi grazie al voto di un quinto della popolazione, forse meno. Una rappresentanza evanescente, numericamente misera, eppure in grado di esercitare un potere totale.
Come siamo potuti arrivare al punto in cui il potere costituito preferisce un’urna vuota a una piena?
La risposta non è solo politica, è culturale. È il frutto maturo – e marcio – di una trasformazione autoritaria senza divise. Nessuna censura esplicita, nessuna violenza fisica. Solo l’invito paternalistico all’inerzia, che è forse la forma più efficace di dominio in una società che si illude ancora di essere libera.
E no, non stiamo parlando della Bielorussia o dell’Egitto. Anzi, là almeno ci tengono alla scenografia democratica: ti portano a votare con la forza o con l’inganno, ma fingono che tu conti. Qui, invece, l’inganno è più sofisticato, e passa per la dissuasione elegante, per il consiglio sussurrato nei talk show, per l’editoriale “moderato” che ti fa sentire maturo se scegli il divano anziché il seggio.
Il governo, fatta eccezione per l’insignificante resistenza di “Noi Moderati” – che cito per completezza, non certo per coerenza – ha scelto la strada del disimpegno attivo. L’idea che il popolo debba rimanere fuori da decisioni cruciali è ormai sistemica. Ma questa non è una novità.
Anche Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica e simbolo di una stagione che avrebbe dovuto rappresentare il riscatto istituzionale dopo Tangentopoli, commise lo stesso errore: invitare all’astensione, a non disturbare il manovratore. Anche allora fu una scelta sbagliata, oggi è semplicemente insopportabile.
Perché chi invita a non votare non si sta astenendo: sta prendendo posizione. Sta difendendo lo status quo. Sta dicendo che non si deve decidere, perché il popolo è infantile, emotivo, incompetente. E questa, sia chiaro, è la negazione della democrazia.
A noi non interessa oggi discutere del merito del referendum. Non è questo il punto. Il punto è un altro, e lo metto nero su bianco:
una democrazia che invita i suoi cittadini a non votare è una democrazia che ha paura del suo popolo.
E dove il potere ha paura del popolo, o si trasforma, o decade.
La domanda che resta, allora, non è “cosa votare”, ma molto più urgente e più grave:
che cosa ci è rimasto davvero da votare?
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