La libertà di stampa non è un privilegio di chi scrive, ma un diritto di chi legge. E quando diventa pericolosa, significa che qualcuno ha paura della verità.
Colpire un giornalista non è un atto isolato: è un segnale rivolto alla democrazia.
Ci sono notizie che non fanno solo rumore. Fanno male.
Non tanto per la loro gravità in sé, ma per ciò che evocano, per la memoria che risvegliano e per le domande che ci obbligano a porci.
L’attentato subito da Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, è una di queste.
Colpire un giornalista non è mai un gesto casuale. È un messaggio, una minaccia rivolta a chiunque osi raccontare ciò che altri vorrebbero restasse nell’ombra. È un atto che scava nella nostra storia come un’eco degli anni più bui: quelli del terrorismo, delle stragi mafiose, dei bavagli imposti al pensiero libero.
Eppure, nel 2025, siamo ancora qui a parlare di giornalisti sotto scorta, di redazioni attaccate, di programmi messi sotto pressione per aver “osato troppo”.
Report è da anni una delle poche voci indipendenti rimaste nel panorama mediatico italiano, e lo è grazie a persone come Ranucci e, prima di lui, Milena Gabanelli: giornalisti veri, che fanno il loro mestiere non per piacere a qualcuno, ma per rendere un servizio a tutti.
La libertà di stampa non è un lusso
Viviamo in un’epoca in cui la libertà di stampa è formalmente garantita, ma sostanzialmente fragile.
Non servono più censure esplicite per ridurre al silenzio chi indaga: bastano le pressioni politiche, le cause milionarie, le minacce online, i tagli di budget, i regolamenti interni scritti per “normalizzare” chi non si allinea.
Ma non è solo un problema di categoria.
Quando un giornalista viene minacciato, non è solo la sua libertà a essere violata: è la nostra libertà di sapere, di capire, di formarci un’opinione.
E senza opinioni consapevoli, la democrazia si svuota.
Il dovere della responsabilità
Essere giornalisti significa anche assumersi un rischio e una responsabilità.
La libertà d’informare non è libertà di manipolare: è libertà di cercare la verità, di verificarla, di contestualizzarla.
Il vero giornalismo non vive di slogan, ma di metodo; non di sensazionalismo, ma di fatti.
Ranucci e la sua squadra incarnano questo spirito: un giornalismo che scava, che non si accontenta, che provoca domande e talvolta disagio.
Ma proprio da questo disagio nasce la consapevolezza collettiva.
Senza giornalisti che disturbano, resteremmo cittadini tranquilli e ignari, e dunque – inevitabilmente – meno liberi.
Il dovere di difendere chi ci difende
Oggi Report è sotto attacco non solo per le sue inchieste, ma anche per un sistema che tende a scoraggiare chi non si piega.
Si parla di limitazioni alle tutele legali per i collaboratori esterni, di nuovi vincoli sulle responsabilità civili, di “riforme” che sembrano fatte per rendere più facile citare in giudizio chi indaga.
È un segnale preoccupante: perché un giornalismo senza protezione è un giornalismo muto. Difendere Report non significa condividere ogni sua puntata, ma riconoscere che senza chi fa domande scomode, la verità si spegne lentamente.
E quando la verità si spegne, si spegne anche il respiro della democrazia.
La libertà di stampa non è mai definitiva. Va protetta ogni giorno — da chi scrive, ma anche da chi legge.
Perché dove la verità diventa pericolosa, il silenzio non è mai neutrale: è complice.
E il giorno in cui i giornalisti smetteranno di fare domande, sarà il giorno in cui anche noi avremo smesso di pretendere risposte.
Riccardo Tugnoli
Piano B – Alternativa al pensiero dominante e alla rassegnazione
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