C’è qualcosa che si è rotto, silenziosamente ma in modo irreversibile, nel tessuto delle nostre relazioni. Lo vediamo ogni giorno: tra adolescenti che si aggrediscono per un like mancato o una parola di troppo, in famiglia dove la rabbia si trasforma in percosse, nei rapporti di coppia dove il rifiuto non è più accettato, e si arriva fino al femminicidio. È come se la violenza fosse diventata l’unico linguaggio compreso, l’ultimo codice per affermarsi, vendicarsi, esistere.
Una volta si diceva: “conta fino a dieci”. Ora si salta direttamente al colpo. La sopportazione di un torto, o di ciò che semplicemente non combacia con la nostra visione del mondo, sembra non rientrare più nel bagaglio emotivo delle persone. Un “no” è vissuto come una dichiarazione di guerra. Una divergenza di opinione, una minaccia da annientare. È la fragilità mascherata da forza bruta, l'incapacità di gestire l'impulso senza sfogarlo sull'altro.
In una società che corre troppo per pensare, le parole hanno perso potere. Non servono a capire, ma a sferrare attacchi. Il confronto non è più un’occasione di crescita, ma un ring. Chi grida più forte ha ragione. Chi impone, domina. Il dissenso è un affronto personale, non un diritto. Così l’aggressività si normalizza, si istituzionalizza, diventa cultura.
I dati sono chiari: la violenza contro le donne non si arresta. Si fa più feroce, più sottile, più giovane. Sempre più minori sono coinvolti – come vittime e, spaventosamente, come autori. Ma da dove viene tutto questo? Da famiglie distratte o assenti? Da modelli culturali tossici? Da una scuola che non educa più all’emozione, alla relazione, al limite? -prosegue dopo l'immagine-
Di fronte a tutto questo non basta indignarsi sui social, né invocare pene più severe ogni volta che esplode un nuovo caso di violenza. La verità è che siamo di fronte a un problema che affonda le radici in come è strutturata la nostra società: nei modelli educativi, nei rapporti di potere, nel modo in cui comunichiamo e nel valore che diamo alle emozioni. Per questo, anche le risposte devono essere collettive, sistemiche, condivise.
Serve innanzitutto riportare l’educazione emotiva al centro delle scuole, fin dai primi anni. Insegnare ai bambini che si può essere arrabbiati senza fare male, che un no si può accettare senza sentirsi sconfitti, che esistono le parole per dirsi le cose, anche quelle difficili. E serve che la scuola non sia lasciata sola in questo compito.
Dobbiamo creare luoghi veri – non solo virtuali – dove si possa parlare, ascoltarsi, mediare. Spazi nei quartieri, nei centri giovanili, nei luoghi di aggregazione, dove si possa imparare a stare insieme anche quando si è diversi. Dove la rabbia trovi qualcuno che la prende sul serio, prima che esploda.
E poi c’è un lavoro culturale enorme da fare, per decostruire certi modelli tossici di forza, di virilità, di potere. Ancora oggi troppi ragazzi crescono pensando che “essere uomo” significhi non mostrarsi fragili, non accettare rifiuti, imporre la propria volontà. Cambiare questa mentalità non è semplice, ma è necessario.
Infine, dobbiamo imparare a cogliere i segnali del disagio prima che diventino emergenze. Spesso chi arriva alla violenza è passato per mille silenzi, mille piccoli campanelli d’allarme che nessuno ha voluto o saputo ascoltare. E qui entrano in gioco i servizi sociali, i consultori, le famiglie, la politica: tutti.
Insomma, non c’è una scorciatoia. Ma c’è un lavoro collettivo, quotidiano, possibile. Se lo vogliamo.
La violenza non è un'emergenza passeggera. È una febbre che segnala una malattia profonda della nostra società. Se non la curiamo alla radice, continuerà a mutare e moltiplicarsi. “Piano B” esiste per pensare alternative: oggi più che mai, serve tornare a credere nella forza del confronto, della gentilezza, della parola. Prima che la violenza diventi davvero l’unico linguaggio possibile.
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Commenti
Condivido il pensiero di Riccardo e penso che sia la strada giusta da applicare sempre per costruire , anche a piccoli passi, e per non distruggere quanto di buono è stato già realizzato